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Vivere senza rating? È possibile,
ce lo ha insegnato Lehman

di Alberto Annicchiarico e Marco Delzio*

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27 marzo 2009
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Agenzie di rating dagli altari alla polvere. Prima osannate e riverite, poi sulla graticola. Nella fitta agenda dell'imminente G-20 di Londra (2 aprile) ai primi posti c'è, come richiesto dall'Unione europea (l'amministrazione Obama condivide e rilancia, contando ancora sull'affidabilità della tripla A), «una coerente regolazione e supervisione» di società anche molto autorevoli, ma che hanno prodotto giudizi a volte troppo generosi. O, in alternativa, corretti in tempi tali da rendere vana la loro vera missione: offrire indicazioni mirate a tutelare gli interessi degli investitori.

Ma davvero le agenzie di rating - cioè Standard & Poor's, Moody's, Fitch - e la loro tanto auspicata riforma su scala internazionale restano tra i punti di riferimento obbligati per chi investe in titoli obbligazionari emessi da società quotate? Le cose potrebbero non stare esattamente così. In realtà è possibile mettere a fuoco le aspettative "implicite" della probabilità di fallimento della società emittente - e quindi capire quanto rischiamo acquistando un bond che sulla carta è stato promosso magari con il massimo dei "voti" - già a partire dalle quotazioni di mercato di strumenti derivati quali i Credit Default Swap (Cds) e da un modello matematico di formazione del prezzo.

Il clamoroso caso del fallimento della banca d'affari americana Lehman Brothers - colata a picco con 630 miliardi di dollari di debiti in una notte di metà settembre 2008 - ha dimostrato che le cosiddette "probabilità implicite" di default, se opportunamente valutate e comunicate - sarebbero state con mesi di anticipo l'unico indicatore effettivo della rischiosità del titolo in contrapposizione all'inefficienza degli indicatori tradizionali di rischio, i rating emessi dalle agenzie internazionali.

Eppure tutto questo non è accaduto. Negli anni di crescita del mercato delle obbligazioni corporate - che hanno ampliato le opportunità per i prestatori di fondi, sia famiglie che investitori istituzionali, in termini di combinazioni rischio-rendimento - il rischio di fallimento della controparte (credit risk) è stato infatti associato, in modo meccanico e acritico (anche da investitori istituzionali come banche e fondi), alla valutazione del rating espresso dalle maggiori agenzie internazionali, con i titoli investment grade (quelli con il rating più elevato) accomunati con troppa facilità ai titoli di stato sul piano della rischiosità.

Il rating, in quanto indicatore atto a rappresentare e "monitorare" il credit risk associato a una obbligazione, è risultato fallimentare soprattutto (ma non solo) nel caso della banca Lehman Brothers, anche se poi si è discusso sul perché il governo Bush abbia salvato istituti di importanza sistemica come Citigroup, Bank of America e Aig, ma non Lehman. In ogni caso, le maggiori agenzie di rating avevano portato i titoli della banca guidata da Dick Fuld a CCC (grado di indicazione di un "quasi" fallimento) soltanto il 15 settembre, proprio il giorno dell'annuncio del ricorso al Chapter 11, la procedura di fallimento pilotato previsto dalla legge fallimentare statunitense.

Esaminando più a fondo la questione, gli operatori del settore avrebbero però dovuto sapere bene che il rating, per la sua natura di giudizio sintetico - troppo dipendente dai bilanci, che offrono dati statici e talvolta sposti a sottili equilibrismi - non permette di distinguere ed evidenziare le due componenti fondamentali del credit risk alle quali un investitore corporate risulta esposto: la probabilità di default (default probability) e il tasso di recupero atteso (expected recovery rate) della società emittente. Il tasso di recupero atteso (espresso in percentuale del valore nozionale dell'obbligazione) indica quanto ci si aspetta di recuperare in caso di evento di default ed è dunque un'informazione cruciale per valutare a priori quanto si è disposti a perdere sotto tale scenario.

Nel caso di Lehman Brothers, gli indicatori "impliciti" della default probability e del recovery rate, desumibili dalle quotazioni di alcuni strumenti di mercato e dall'adozione di modelli matematici di pricing, sono stati molto più efficienti dei rating. Gli strumenti di mercato in questione sono, come si diceva, i Credit defaul swap e le opzioni put"out-of-money" scritte sul titolo azionario. I Cds prevalgono in quanto a liquidità rispetto alle opzioni put out-of-money: sono contratti interbancari, non scambiati su borse regolamentate (sono anche detti Otc, over-the-counter), dove una banca (protection seller) assicura un titolo obbligazionario, denominato Reference Obligation, contro il rischio di fallimento dell'emittente, percependo in cambio un premio dall'acquirente (protection buyer).

Il Cds permette dunque di isolare e trasferire il rischio di credito, associato ad un determinato emittente, dal detentore dell'obbligazione al venditore del Cds, generalmente una banca di investimento "attrezzata" per gestire il rischio stesso. Inoltre, la natura di "swap" del Cds, cioè di scambio di flussi di cassa tra le controparti, rende la sua valutazione e quindi il suo prezzo di mercato parzialmente immune dalle variazioni dei tassi di interesse.

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27 marzo 2009
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